Tu sei qui: Economia e TurismoTurismo: per ripartire deve cambiare il lavoro. Un’analisi e una proposta del prof. Paolo Russo
Inserito da (Maria Abate), giovedì 10 giugno 2021 13:49:17
Di Paolo Russo*
"Niente sarà più come prima" si proclamava con enfasi nel pieno della pandemia, ipotizzando una sorta di palingenesi che avrebbe reso tutti più solidali e più corretti. Così non è stato. In Costa d'Amalfi il turismo sembra avviato alla ripartenza, ma col consueto atavico guasto di fondo: la tutela scarsa o nulla dei lavoratori. E' prassi consolidata in molte aziende del ramo: stipendi reali incuranti dei contratti collettivi, buste paga fasulle, orari dilatati senza alcun riconoscimento, ferie e riposi ignorati, mansioni ballerine secondo convenienza (del datore), lavoro festivo o notturno equiparato all'ordinario, tipologie contrattuali funzionali alla licenziabilità quasi assoluta e perciò ad ogni tipo di ricatti. E poi (purtroppo spesso con la connivenza degli stessi interessati) il ricorso alla piaga del "nero", che esclude anche la minima tutela. So bene che molti imprenditori insorgeranno, non riconoscendosi in un quadro così nero; e certamente vi sono casi in cui esso è troppo cupo. Ma in tanti altri no. Chiunque si informi (in privato!) da un cameriere, una addetta ai piani o un bagnino avrà conferma delle inaccettabili pratiche invalse in un settore che invece proprio del lavoro e dei lavoratori dovrebbe fare un punto di forza. Invece di puntare sulla qualificazione dei servizi (che ha la chiave di volta proprio nelle capacità professionali degli addetti) non poche imprese continuano a immaginare profitti basati sul massimo contenimento delle retribuzioni e dei diritti: scelta di corto respiro e controproducente, che immiserisce la qualità stessa dell'offerta. Senza contare che i sostegni pubblici (dai ristori agli aiuti fiscali, sino ai recenti milioni stanziati dalla Regione) risultano accessibili alle imprese assai più che ai lavoratori: ricordiamo tutti le vicissitudini degli stagionali per il bonus INPS, rimasto esiguo oltre che inarrivabile per molti. Invece è proprio questo il momento di ridurre le distanze, di motivare i mestieri, di prospettare occupazione dignitosa assai più che sussidi. La verità è che sul lavoro si dovrebbe investire, e non per bontà d'animo ma perché esso è la principale risorsa produttiva, come l'ordinamento costituzionale suggerisce quando prevede la "funzione sociale" dell'impresa. Invece perdurano atteggiamenti padronali al limite dello sfruttamento, dipendenti tartassati e spremuti anche a causa della cronica carenza di controlli. E se allora fossero i Comuni a intervenire? Molti provvedimenti a vantaggio delle aziende partono o transitano dalle amministrazioni locali: non potrebbero queste ultime richiedere ai beneficiari una dichiarazione di impegno al rispetto delle norme lavoristiche? Disponendo, in caso di accertate inadempienze, la revoca dei benefici stessi? Di certo i Comuni non hanno competenze specifiche in materia, tuttavia possono forse esercitare un forte richiamo (qualcosa in più di una "moral suasion") nei confronti dei datori di lavoro allorché questi sono interessati da misure di sostegno. Insomma, come è doveroso nell'interesse generale supportare le attività produttive, lo è altrettanto per gli esercenti rispettare la funzione e la dignità del lavoro e dei lavoratori. E' chiedere troppo?
p.s. Anticipo i consueti personali odiatori via social, affermando da parte mia, come consigliere comunale di Minori, un impegno in tal senso.
*Consigliere comunale di Minori, già prof di Diritto ed Economia
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