Tu sei qui: Economia e TurismoIl datore di lavoro è responsabile per l'eventuale contagio da Coronavirus del dipendente
Inserito da (admin), giovedì 7 maggio 2020 11:51:13
Il "Decreto Cura Italia" considera il contagio da CoViD-19 sul posto di lavoro come un infortunio sul lavoro. Il datore di lavoro è di conseguenza, esposto alla responsabilità penale per i reati di lesioni e omicidio colposo ai sensi degli artt. 589 e 590 del codice penale, con l'aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche, nell'ipotesi dovessero essere rilevate infrazioni o la mancanza di adozione delle misure necessarie atte a prevenire il rischio di contagio.
A tal riguardo abbiamo interpellato Carlo Cinque, nella sua duplice veste di imprenditore/coproprietario, direttore amministrativo e responsabile delle risorse umane dell'Hotel Il San Pietro di Positano, nonché dottore commercialista.
"Secondo l'articolo 42 comma 2 del Decreto Legge numero 18 del 17 marzo 2020 (definito "Cura Italia") è prevista la copertura Inail per gli assicurati che contraggono un'infezione da coronavirus "in occasione di lavoro". Un'espressione che lascia ampi spazi interpretativi ampliando l'applicabilità della tutela assicurativa anche ai contagi "in itinere" (raggiungimento del luogo di lavoro e ritorno al proprio domicilio) e addirittura ai casi di lavoro a distanza (smart working). L'INAIL ha precisato, nella circolare n. 13 del 3 aprile 2020, che le malattie infettive e parassitarie sono pacificamente inquadrate nella categoria degli infortuni sul lavoro, a cui si debbono pertanto ricondurre anche i casi di infezione da coronavirus. Cosa ne pensa in merito?"
Premetto che non sono un esperto in materia giuslavoristica ma, in forza del mio ruolo, mi trovo comunque a dover affrontare il tema del lavoro da molte delle sue poliedriche sfaccettature e quindi proverò a rispondere alla sua domanda provando a utilizzare lo strumento del pensiero logico, che si vorrebbe propedeutico all'attività legislativa in senso prettamente tecnico. Questo sentimento comune, tuttavia, nella realtà dei fatti, non è sempre soddisfatto, vuoi per sfasamenti temporali occorrenti per il recepimento, in norme di legge, di una realtà sempre più mutevole e complessa e che viaggia a una velocità sempre maggiore rispetto alla legge stessa che dovrebbe governarla, vuoi per una difficoltà oggettiva di prevedere comportamenti, scenari ed eventi futuri.
La prima impressione leggendo l'art. 42 comma 2 del D.L. "Cura Italia", convertito poi nella Legge n 27/2020, è che questa norma sia stata partorita dalla fretta del legislatore di dimostrare un proprio attivismo normativo in questo periodo di severa emergenza sanitaria ed economica che ha immobilizzato il mondo intero. Tuttavia l'asserzione che la fretta non è mai una buona consigliera, trova riscontro proprio in questa norma che mostra, a mio modesto avviso, profili di illogicità oltre che difetti di coerenza, ponendosi in contrapposizione con tutto quanto ha contribuito, finora, a definire il concetto di "infortunio sul lavoro" e vediamo perché.
Partiamo dalla constatazione della contraddittorietà tra la Circolare Inail n. 13 del 3-4-2020 che precisa "...secondo l'indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l'Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l'aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro..." e l'art. 590 del Codice Penale laddove il contagio viene, invece, equiparato, per consolidatissima giurisprudenza, alla "malattia", che forma oggetto del reato di lesioni personali, e non, per l'appunto, a un "infortunio sul lavoro".
Ed è proprio partendo dall'ambito delle "malattie" e delle "malattie professionali", che va fatto il primo distinguo tra le malattie classiche, che sono tutte quelle oramai ben conosciute, studiate e approfondite dalla scienza medica, tra cui anche quelle infettive, delle quali si conoscono l'origine, la diffusione, la contagiosità, la letalità e le relative cure e il Covid-19, sul quale non si conosce onestamente ancora nulla di certo. Trovarsi, improvvisamente, nell'occhio del ciclone di una pandemia, per di più veicolata da un morbo nuovo e completamente sconosciuto, sia in merito alla sua "eziologia", "patologia" e "clinica", è cosa ben diversa dall'affrontare una malattia già conosciuta e questa diversità non è una cosa di poco conto, perché cambia tutte le carte in tavola, stravolge tutto il paradigma e tutti i modelli di riferimento finora utilizzati per le malattie già note che, quindi, non possono più applicarsi a un morbo completamente sconosciuto come il Covid-19.
Ulteriori considerazioni sul perché il contagio da virus Sars-Covid-19 non potrebbe essere equiparato alla stessa stregua di un infortunio sul lavoro:
L'infortunio sul lavoro è definito come un evento traumatico, avvenuto per una "causa violenta" sul posto di lavoro o "in occasione di lavoro", che comporta l'impossibilità di svolgere l'attività lavorativa per più di tre giorni. Quindi perché possa parlarsi di un infortunio sul lavoro, vi è bisogno della compresenza di questi tre presupposti che sono: 1) un evento traumatico dal quale deriva una lesione alla salute del lavoratore; 2)una causa violenta, ovvero una azione intensa e concentrata nel tempo (evento istantaneo o quasi) che causa la lesione alla salute, si pensi al lavoratore che si da una martellata sul dito e si provoca una ferita lacero-contusa; 3) un collegamento "causa ed effetto" tra l'evento traumatico e lo svolgimento del lavoro o "in occasione di lavoro";
Ora venendo al caso di un presunto contagio Covid-19 in azienda, sembrerebbe che vengano meno tutti e tre i presupposti sopra richiamati e necessari affinché questo evento possa definirsi un "infortunio sul lavoro".
1) Il primo presupposto non è ravvisabile perché un contagio non è sicuramente un evento traumatico, inteso in senso meccanico o fisico.
2) Seguendo la stessa logica non vi è traccia neanche del secondo presupposto, perché un contagio non si manifesta con la c.d. "causa violenta", nell'esempio la martellata sul dito, a meno che non si voglia supporre che il martello fosse già stato contagiato dal virus!
3)Il terzo presupposto è fortemente traballante e incerto perché non è palesemente ravvisabile il rapporto di causa ed effetto, visto che il lavoratore trascorre in azienda, oppure si produce "in occasione di lavoro"per poco più di un quarto della sua giornata solare, trascorrendo i restanti tre quarti fuori dall'azienda o in attività non lavorative.
In virtù di quanto detto sopra possiamo sbilanciarci ad affermare che il contagio da virus Sars-Covid-19 non presenta nessuno dei presupposti di un "infortunio sul lavoro" e più avanti daremo ulteriori evidenze di questo assunto.
Escludendo l'equiparazione del contagio da Sars-Covid-19 a un "infortunio", volendo operare una notevole forzatura, lo si potrebbe, tuttalpiù, assimilare alla "malattia", il che sarebbe, comunque, un tentativo di far rientrare dalla finestra (malattia professionale) ciò che è uscito dalla porta (infortunio), ovvero di considerare un eventuale contagio Sars-Covid-19 in azienda non come un "infortunio" ma come una "malattia professionale". La forzatura è maggiormente evidente, allorquando si consideri che perché si abbia una malattia professionale non basta l'occasione di lavoro, come per gli infortuni, ma deve esistere un rapporto causale, o concausale, diretto tra il rischio professionale e la malattia,che nell'ipotesi di specie manca, come avremo modo di leggere più diffusamente in seguito. Inoltre la malattia professionale consiste in una patologia la cui causa agisce lentamente e progressivamente sull'organismo, quindi parliamo di una causa diluita nel tempo che proprio in ragione del suo protrarsi produce la malattia e non di un'esposizione di breve respiro, della durata di qualche ora o anche di qualche giorno al massimo. Cercare di far rientrare lo sconosciuto contagio da virus Sars-Covid-19, tra le malattie professionali sarebbe come voler includere nell'insieme omogeneo delle malattie conosciute, una malattia completamente sconosciuta, dando per scontato, il fatto, che essa sia omogenea alle altre quando così non è.
Se quindi decidessimo di accettare questa forzatura e volessimo concedere al contagio dal virus Sars-Covid-19 lo status di malattia, il fulcro della situazione, ovvero il punto di partenza per una corretta applicazione della norma, sarebbe quello di individuare, senza alcun ragionevole dubbio, il momento del contagio e le norme applicabili.
Il problema maggiore è proprio quello di capire, in una fase in cui vi è ancora assoluta incertezza sull'origine del virus, sulle sue modalità di trasmissione, sui tempi di incubazione etc., come potrà mai il medico certificatore redigere il certificato da mandare all'INAIL dichiarando di aver accertato che l'infezione di "Covid-19" è stata contratta "in occasione di lavoro"!!
Tale tematica non è di scarso rilievo, se si considera che un "abuso" o una "semplificazione" di quanto sopra detto, in mancanza di precisi parametri medico, legali, farebbe correre il rischio di addossare "sistematicamente" ad incolpevoli datori di lavoro rilevantissime responsabilità sia civili che penali che sicuramente non gli competerebbero.
Come potrà il medico certificatore affermare, a cuor leggero, senza avere la possibilità di accertare, propedeuticamente, la sussistenza "esclusiva" del "nesso di causalità" tra "evento" patologico ed "ambiente di lavoro" e/o di eventuali omissioni da parte del datore di lavoro di adozione di D.P.I e di sistemi di prevenzione, che l'infezione è avvenuta in occasione di lavoro e che non era già avvenuta in precedenza da parte del lavoratore, in circostanze ed eventi della sua vita privata non riconducibili ad una "occasione di lavoro" ?
Un ulteriore macigno da superare per procedere a una diagnosi di un contagio in occasione di lavoro" è dato dal fatto che ancora non vi è certezza circa le modalità con le quali questo morbo si propaga. Si è dapprima detto che il virus viaggiasse nell'aria, poi che il suo sviluppo e la sua contagiosità sia stata favorita dall'aria inquinata, da alcune frequenze radio, nelle donne sia meno virulento che negli uomini, nelle persone anziane più che in quelle giovani, nelle persone con malattie pregresse più che tra quelle sane, che si diffonde tramite il respiro umano, tramite il droplet degli starnuti o della tosse, toccandosi la bocca, naso e occhi con le mani infette, tramite l'aria condizionata, per via fecale, toccando oggetti contaminati. Vi sono stati dubbi se gli animali avessero potuto rappresentare una fonte di contagio oppure no, prima si è detto che non vi era bisogno di usare le mascherine in alcune circostanze e dopo invece si, altri dubbi su quali mascherine usare, si trovano...non si trovano, e così continuando in una sequela vertiginosa di ipotesi e teorie. Anche la stessa OMS, che dovrebbe essere l'istituzione sanitaria mondiale per antonomasia, ha dato indicazioni diverse, a volte addirittura contrastanti e non coerenti tra loro a mano mano che aumentava la percezione della conoscenza del virus Sars-Covid-19.
Oggi è chiaro che noi cittadini italiani, anche nella non uniformità dei protocolli di sicurezza, li abbiamo rispettati tutti e in particolar modo ci siamo attenuti al presidio del lockdown e del distanziamento sociale e questo ci ha evitato che il contagio potesse abbattersi con maggiore virulenza in tutte le regioni italiane. Tuttavia anche rispettando tutte queste prescrizioni, i contagi non si sono azzerati e sono stati comunque numerosissimi e questo significa che finché il Sars-Covid-19 non ci avrà abbandonato del tutto i contagi si potranno contenere ma non annullare del tutto. Perché allora criminalizzare il datore di lavoro per un contagio avvenuto in azienda quando non viene ricercato nessun colpevole per i contagi avvenuti al di fuori degli ambienti di lavoro ?
A titolo di esempio, prendiamo il caso di una persona che abbia rispettato in pieno il lockdown e il distanziamento sociale e che sia uscito di casa, provvisto di tutti i DPI, solo per fare la spesa, comprare medicine in farmacia e portare il suo cane a fare i bisogni. Un bel giorno torna a casa e si sente male, chiama il suo medico di base il quale lo visita e predispone per gli accertamenti del caso. Gli viene fatto il tampone e risulta positivo al virus Sars-Covid-19. A quel punto l'autorità sanitaria competente si attiva, per risalire ai suoi contatti critici avuti nel periodo di latenza e assumiamo che riesca a rintracciarli tutti, compresa la persona che l'ha contagiato. Nei confronti di queste persone o soltanto di alcuni di essi, vengono predisposti tutti i protocolli sanitari, caso per caso, ma non viene avviata nessuna "indagine", nei confronti di nessuna di esse, ne civile e ne penale, volta a sanzionare "l'untore". Allora perché questo discrimine tra un contagio prodottosi, per cause naturali, fuori dall'ambiente di lavoro e un contagio prodottosi, sempre per cause naturali, in occasione di lavoro ?
A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare dicendo che le azioni di "andare a fare la spesa e comprare le medicine, non certo uscire col cane, sono indispensabili per soddisfare alcuni bisogni primari della vita che sono quello di sfamarsi e di curarsi e quindi sono azioni necessarie e indifferibili, che vanno fatte e non si può farne a meno". Altrettanto facile e intuitivo è capire che senza lavorare non si può né fare la spesa né comprarsi i farmaci, quindi il bene del lavoro è un bene primario per eccellenza, tanto è vero che si parla di un "diritto al lavoro" e che non si può vivere senza lavorare perché serve a procuraci il guadagno per soddisfare tutti i bisogni primari e non, della vita. Quindi dov'è la differenza ? perché ci si può contagiare in farmacia e al supermercato senza che sopraggiunga l'accanimento di trovare un colpevole e invece sale subito il sangue agli occhi se il contagio sopraggiunge "in occasione di lavoro ? non è l'azienda il luogo principe, dove si creano le occasioni di lavoro, in cui molti trovano la propria realizzazione e dove ci procuriamo ciò che occorre per sostenere noi stessi e le nostre famiglie ? Se è così, allora, le aziende andrebbero tutelate, nei limiti dei diritti/doveri reciproci, e non demonizzate a ogni piè sospinto.
Ovviamente sarebbe opportuno eliminare questa forte incertezza, prodottasi, al momento attuale, in modo tale da accordare al datore di lavoro una situazione di ragionevole tranquillità che lo ponga al riparo da facili e strumentali chiamate in causa, che potrebbero aumentare esponenzialmente in un periodo di depressione economica come quella che ci apprestiamo a vivere. Tutto questo non significa che le imprese ne uscirebbero di sicuro soccombenti, ma di sicuro con norme così confuse è stato piantato il seme del contenzioso, la cui celebrazione richiederà istruttorie lunghe e faticose.
Il timore è che questa norma, (art. 42 D.L. Cura Italia) se non modificata, potrebbe concorrere alla decisione di molte attività di rimandare le aperture a tempi più tranquilli, con ciò producendo un ulteriore aggravamento del quadro economico e finanziario nazionale. Bisognerebbe, invece, ridare tranquillità a tutte quelle attività che operano avvalendosi di lavoratori. Quella tranquillità che ora gli viene preclusa anche allorquando essi pongano in essere tutte le norme e i protocolli di prevenzione perché il rischio di sbagliare, di far confusione, di non capire bene, di non riuscire a controllare tutti, è altissimo con le norme di sicurezza che si avvicendano e si sovrappongono in rapidissima successione temporale. Tenendo anche conto del fatto che tutti noi siamo stati sottoposti a un bombardamento mediatico a 360 gradi, durante tutto l'arco del nostro lungo periodo di lockdown, trascorso a casa, e che resettare dalle nostre menti una tale mole di nozioni, per la maggior parte errate e contraddittorie, per fare spazio alla indispensabile, necessaria e giusta informazione e formazione, sul luogo di lavoro, sarà un compito molto arduo e complicato, perché il diavolo e quindi l'errore, in buonafede, potrebbe nascondersi dietro ogni angolo.
Detto questo, volendo ora fare uno sforzo di immaginazione per cercare di capire le reali intenzioni del legislatore nello stilare questo famigerato art. 42 del D.L. c.d. "Cura Italia", poi convertito nella Legge n. 27/2020, posso azzardarmi nell'intuizione che, probabilmente, si sia voluta dare una copertura assicurativa al lavoratore, trasferendone l'onere dall'INPS, ormai con le casse vuote, all'INAIL. Ora se questo è stato il "movente" del legislatore, la cosa potrebbe anche passare, in considerazione della fase emergenziale che stiamo, tuttora, vivendo, in quanto cambiando l'ordine degli addendi il prodotto, in questo caso il saldo, non cambia. Purtroppo, ciò che non va affatto bene è che tutto questo provochi dei danni collaterali a spese e sulla pelle del datore di lavoro che anche in questo caso funge da capro espiatorio, facendone scaturire, eventuali, gravi conseguenze, anche di ordine penale oltre che civile.
Se queste sono state le motivazioni del legislatore, penso che, per ragioni di giustizia, di onestà intellettuale ed equità, nel redigere il decreto "Cura Italia", questi dovrebbe aggiungere, dopo l'art. 42, che introduce il contagio da Sars-Covid-19 come infortunio sul lavoro, un altro articolo (42bis) il quale dovrebbe, grossomodo, puntualizzare quanto segue: in un clima emergenziale, quale è quello attuale, essendo stato anche dichiarato lo stato di emergenza sanitaria il 30 gennaio 2020 con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, in una situazione di convivenza con il virus Sars-Covid-19, il contagio può insorgere ovunque e che questo di per se, in assenza di dolo o colpa grave, non implichi necessariamente la responsabilità civile o penale di qualcuno, tanto meno del datore di lavoro per un contagio sorto in azienda, che oltre ai rischi ordinari di impresa, si è assunto anche quello di tenere aperta la sua azienda nel perdurare della circolazione del virus e quindi della convivenza con lo stesso.
In uno slancio di ottimismo voglio augurami che una tra le eredità positive di questa pandemia, possa essere un esame di coscienza collettivo che ci permetta di superare questa cultura del sospetto nei confronti del datore di lavoro che ancora circola in Italia. Vi faccio un semplice esempio: un normale cittadino, ai tempi del Covid-19, è obbligato dalla legge italiana a osservare tutte le numerose disposizioni in materia di sicurezza sanitaria a beneficio suo e della collettività, dalle norme sul lockdown, al distanziamento sociale, all'igiene personale, all'uso delle mascherine, etc., disposte dal Governo e dagli enti sanitari locali preposti. Questi lo deve fare quando si trova in famiglia, quando è per strada, quando va a fare la spesa, quando va in farmacia o in qualsiasi altro luogo egli vada. Miracolosamente solo quando questo cittadino mette piede in azienda e si trasforma in lavoratore, viene, come per magia, deresponsabilizzato ed è il suo datore di lavoro ad assumere su di sé, come un novello Gesù, tutti i suoi "peccati" e responsabilità, in tal modo purificandolo e dispensandolo da molti di tali doveri. Da ciò deriva l'obbligo da parte del datore di lavoro di provvedere, così come fa un padre nei confronti del proprio figlio minore, in tutto e per tutto, alla sua sicurezza e se, comunque, accade qualcosa, non è quasi mai addebitabile al lavoratore, che non si è comportato come quando non è in azienda, come quando si reca in farmacia, al supermercato o in qualsiasi altro posto in cui tutti noi rischiamo, ma è colpa del datore di lavoro che non ha controllato che lo facesse.
La previsione di un contagio da Sars-Covid-19 in azienda come infortunio sul lavoro, è sintomatica di questa cultura di avversione all'impresa, perché ragionando per assurdo, si potrebbe ipotizzare una responsabilità del datore di lavoro solo nel caso in cui i suoi dipendenti lavorassero in azienda 24 ore su 24 e quindi vivessero al suo interno e fossero, peraltro, stati assunti prima del periodo di incubazione del virus. Solo in queste circostanze se uno di essi sviluppasse il contagio sarebbe pacifico l'essere stato contagiato in azienda ma sappiamo tutti che una condizione lavorativa del genere è, per fortuna, preclusa nella nostra società che ci sforziamo di definire civile ma che per esserlo compiutamente avrebbe bisogno di fare ulteriori passi nella direzione di una solidarietà giusta ed equa. Dove essere solidali con alcuni non significhi sottrarre solidarietà ad altri, una solidarietà a somma zero non sarebbe solidarietà, semplicemente non esiste, non è nell'etimologia stessa della parola. Essere solidali dovrebbe significare creare un benessere aggiunto per tutti coloro che la ricevono, ma non a discapito di chi contribuisce a creare tale benessere. Se per dare solidarietà si decide di "truccare", per un periodo limitato, il tavolo da gioco, che almeno si abbia l'accortezza di accertarsi che a pagarne le conseguenze non siano gli altri ignari avventori del Casinò!
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